É quanto sostiene da anni, perorando una visione ecologica della propria professione.
Giura guerra ai finti materiali, che confondono e compromettono la riconoscibilità dei veri, oltre a causare enormi difficoltà in fase di smaltimento. Poi continua, affermando come in un’ottica progettuale la funzione del colore non debba esaurirsi in un espediente puramente estetico, ma necessiti di essere vincolata ad un criterio di responsabilità, poiché il colore è la pelle del prodotto, il primo elemento che percepiamo e verso cui, se mal progettato, proviamo insofferenza.
E allora un frigorifero giallo, se davvero può colpirci al primo impatto, poi ci disturba, ci annoia, diventa una presenza troppo invadente all’interno del paesaggio domestico e ci spinge a cambiarlo, risucchiandoci nella più ovvia delle spirali consumistiche. Ecco, dunque, la valenza etica del colore, che se opportunamente utilizzato può garantire stabilità, gradevolezza ed equilibrio nel tempo, armonizzandosi con ciò che lo circonda.
É nell’espressione di questi concetti che emerge la professionalità, il metodo, e poi il desiderio di lasciare un segno concreto nell’esperienza di chi ascolta. Tira fuori dei grossi fogli su cui sono stampati cerchi e triangoli a griglie, e dei campioni di colore, forniti per l’occasione da una delle aziende con cui collabora:
«Adesso vi insegno a mappare i colori».
É un esercizio carino e di facile comprensione, che coinvolge i presenti invitandoli a identificare la aree cromatiche cui i campioni di colore appartengono.
C’è un metodo anche per questo, e il pubblico lo apprende divertendosi, al termine di un incontro caratterizzato dall’accessibilità dei suoi contenuti, perché semplice è stato il modo di comunicarli di una progettista che porta con sé ragionamenti intellettualmente elevati, ma al contempo utili a livello pratico.
Tutto ciò, in fondo, vuol dire far cultura: la cultura del colore.